C’è una fotografia, scattata nel 1946, che ritrae i bambini di spalle, intenti a camminare verso una radura piena di luce. I contorni sono lievi, morbidi. La luce filtra tra gli alberi come una promessa. Il titolo è The Walk to Paradise Garden. Per molti fu il simbolo della rinascita dell’umanità dopo gli orrori della guerra. Per W. Eugene Smith, autore dello scatto, fu qualcosa di più: il ritorno alla vita dopo aver rischiato di perderla. La sua e quella degli altri.

In questa immagine c’è già tutto: l’etica della testimonianza, la ricerca della bellezza dentro la sofferenza, la tensione verso un “oltre”. Smith non era un fotografo come gli altri. Era un uomo in lotta con il mondo e con se stesso, un testimone che non cercava l’oggettività ma la verità. Quella profonda, contraddittoria, indicibile. La fotografia non era mai, per lui, un gesto neutro: era un atto morale, un’urgenza esistenziale.

William Eugene Smith nasce nel 1918 a Wichita, Kansas. Sua madre, Nettie Lee, è una fotografa dilettante. Suo padre, William, un commerciante di cereali, si toglie la vita nel 1936. Una cesura che rimarrà aperta per sempre. A quindici anni Eugene fotografa già per i giornali locali, e presto abbandona gli studi universitari per New York. Entra a contatto con le grandi riviste, lavora per Newsweek, Harper’s Bazaar, Collier’s, ma è con Life che il suo sguardo trova un palcoscenico. O, meglio, un campo di battaglia.

Durante la Seconda guerra mondiale, Smith è inviato nel Pacifico: Saipan, Iwo Jima, Okinawa. Non si limita a osservare: attraversa, registra, partecipa. Nel 1945 viene colpito al volto da una granata. Due anni d’ospedale, trenta interventi chirurgici. È in quel periodo che scatta la celebre foto dei suoi figli nel giardino. La luce, ancora una volta, filtra tra le foglie. Ritorna.

Smith non cerca lo scatto definitivo, ma il filo narrativo. Le sue immagini sono frasi che si inseguono, interrogano, costruiscono senso. Il reportage per lui è sequenza, ritmo, scelta etica. In Country Doctor segue la vita di un medico di provincia: niente eroismi, solo fatica e prossimità. In Spanish Village registra una Spagna profonda, silenziosa, ferita. In Nurse Midwife, la figura di Maude Callen emerge come epica quotidiana. Con il suo lavoro, Smith non solo racconta: cambia le cose. Le sue immagini smuovono, spostano, trasformano.

Ma Smith è intransigente. Non accetta tagli, modifiche, ingerenze. Vuole dire tutto, anche quando il tutto è troppo. Nel 1954 lascia Life, incapace di accettare mediazioni su ciò che per lui è testimonianza.

Il bianco e nero di Smith non è una scelta di stile: è un campo di forze. Ogni stampa è il frutto di un corpo a corpo con la materia, con la luce, con se stesso. Passa giorni a scolpire le immagini in camera oscura. Ogni contrasto, ogni sfumatura è il risultato di un processo emotivo prima ancora che tecnico. La fotografia diventa un modo per stare al mondo. Per non essere travolti.

Smith si immerge nei mondi che fotografa. Non è un testimone distante. Mangia con le persone, cammina con loro, vive con loro. Non osserva: partecipa. La macchina fotografica non è uno strumento. È un ponte, un ago che cuce distanze.

Negli anni Sessanta, nel loft di Manhattan al numero 821 della Sesta Avenue, Smith si trasforma in archivista del suono e della notte. Registra migliaia di ore di musica e conversazioni. Fotografa musicisti come Thelonious Monk, Charles Mingus, Zoot Sims. The Jazz Loft Project è una partitura visiva e sonora, un affresco di improvvisazione e disciplina. Ma anche un rifugio. E una trappola. Il loft diventa la sua isola. L’alcol, l’insonnia, le droghe iniziano a corrodere il corpo e il ritmo.

Nel 1971 si sposta a Minamata, in Giappone. Lì documenta le conseguenze devastanti dell’inquinamento da mercurio. Le sue immagini delle vittime, in particolare quella della piccola Tomoko Uemura immersa in una vasca con la madre, fanno il giro del mondo. È un’immagine che non si dimentica. La pietà come forma estrema di resistenza. Smith viene aggredito dalle guardie della Chisso Corporation. Perde parzialmente la vista. Ma non smette. Per lui la verità è sempre più importante della pace.

Muore nel 1978. Lascia dietro di sé archivi sconfinati. Ma soprattutto lascia un modo di guardare, di sentire, di raccontare. La sua fotografia è testimone, ferita, domanda. È un grido sussurrato, una tensione che continua a vibrare anche dopo lo scatto.

La sua vita privata è segnata da contraddizioni e dolori. Il suicidio del padre, l’incapacità di vivere relazioni stabili, le separazioni. Ma anche alleanze profonde, come quella con Aileen Mioko Smith. Compagna, alleata, testimone a sua volta. Smith si consuma, ma non si arrende. La macchina fotografica rimane il suo modo di abitare la realtà.

Dopo la sua morte, la sua opera viene riletta, esposta, studiata. Le sue fotografie entrano nei musei e nei manuali. La mostra Let Truth Be the Prejudice ridefinisce la sua figura. Critici e storici lo rileggono come un autore totale: fotografo, narratore, archivista del dolore e della dignità.

Smith non cercava consensi. Cercava coscienza. Non voleva piacere: voleva toccare. O ferire. O guarire.

Scrivere di lui è come sviluppare una pellicola. Ci vuole buio. Tempo. Ascolto. Ogni sua immagine chiede di essere abitata, non solo vista. La sua voce, per quanto flebile, continua a chiamare. Se la si sa ascoltare, risponde.