Sebastião Salgado, oltre lo sguardo: dal dolore al risanamento della terra, una parabola umana e artistica

 

Sebastião Salgado e il silenzio che racconta l’umanità

Davanti alle fotografie di Sebastião Salgado, il silenzio è sempre la prima risposta. Un silenzio denso, ricco di rispetto, empatia, consapevolezza. Non è facile resistere alla tentazione di associare immediatamente la bellezza formale delle sue immagini a un’accusa di estetizzazione, ma questa è una lettura superficiale e riduttiva. Salgado non ha mai voluto creare un compiaciuto voyeurismo del dolore; al contrario, la sua cifra poetica è la delicatezza. Il suo sguardo accarezza piuttosto che affondare, suggerisce piuttosto che dichiarare, protegge la dignità di chi soffre piuttosto che esibirla in un gratuito spettacolo della sofferenza.

Proprio per questa delicatezza, la sua opera si distingue e tocca il profondo delle coscienze: le persone guardano e capiscono, e nel capire rispettano. La fotografia di Salgado è un lento, paziente processo di avvicinamento alla verità umana, un invito silenzioso a cogliere l’universale nell’individuale. È una forma di filosofia visiva che risponde al clamore delle tragedie con la compostezza di una riflessione interiore.

E forse nulla incarna questa sua filosofia quanto l’ultima fase della sua vita, segnata da una malattia che affonda le radici nella sua storia personale e nei suoi innumerevoli viaggi, fra guerre, carestie e terre lontane. Colpito da una leucemia, sviluppatasi come complicazione di una malaria contratta molti anni prima, Salgado ha trovato proprio nella terra della sua infanzia, devastata e ormai sterile, un’occasione di rinascita. Quella terra era il Minas Gerais, regione brasiliana di dolci colline e antiche foreste, ridotta a una polvere arida dalla deforestazione selvaggia degli anni recenti. Il dolore della malattia e il senso di disperazione che aveva vissuto nel testimoniare tragedie come quella ruandese sembravano averlo sopraffatto, finché la moglie Lélia non gli propose un progetto che era insieme terapia e redenzione: riportare vita e speranza in quei luoghi ormai desolati. Nasce così l’Instituto Terra, un progetto rivoluzionario e al tempo stesso semplicissimo: piantare alberi. Un gesto apparentemente elementare, quasi banale nella sua concretezza, ma che nelle mani di Salgado e Lélia assume una dimensione epica e simbolica. Piantare alberi è diventato per lui un atto di restituzione, non solo verso la terra che lo aveva generato, ma anche verso sé stesso, come uomo ferito che ritrova nella natura una possibilità concreta di guarigione. Milioni di alberi dopo, quella terra è rinata, diventando di nuovo fertile, ricca di vita, popolata da animali e piante che sembravano irrimediabilmente perduti.

Questo progetto non è stato solo il risanamento ecologico di un luogo geografico, ma anche il recupero della dimensione più profonda dell’essere umano: quella della speranza. Salgado, che aveva attraversato i luoghi più bui dell’animo umano, si era reso conto che testimoniare la tragedia non era sufficiente: bisognava anche dimostrare che una via d’uscita, una redenzione, era possibile. Era un messaggio potente e necessario, che si inscrive perfettamente nella filosofia della sua arte: la bellezza non è un filtro, ma uno strumento di conoscenza e di riscatto.

Ed è proprio da questo punto di svolta, da questa riconciliazione con la vita, che possiamo rileggere a ritroso la sua intera esperienza artistica e umana.

Come un bosco ha guarito Sebastião Salgado

Se il risanamento della terra ha rappresentato una rinascita personale e artistica per Sebastião Salgado, il percorso che lo ha portato fin lì ha radici profonde, intrecciate con la sua formazione culturale e professionale. Nato in Brasile, in una famiglia numerosa e profondamente legata al territorio, Salgado intraprese inizialmente studi di economia, laureandosi all’Università di São Paulo e specializzandosi poi in economia dello sviluppo a Parigi. Questi anni formativi non sono solo un dettaglio biografico, ma un passaggio fondamentale per comprendere l’etica profonda che guiderà tutta la sua opera fotografica.

Perché un economista ha scelto la fotografia?

Da economista, Salgado studiò le strutture che generano diseguaglianza e povertà, acquisendo strumenti analitici e una consapevolezza politica che lo avrebbe portato, qualche anno dopo, a denunciare visivamente le ingiustizie sociali ed economiche. Negli anni Settanta, lavorando per l’Organizzazione Internazionale del Caffè, ebbe modo di viaggiare frequentemente in Africa, continente che segnò indelebilmente la sua coscienza umana e sociale. Fu proprio lì, osservando realtà lontane dall’opulenza occidentale, che Salgado cominciò a sentire l’urgenza di testimoniare in modo diverso, più diretto e coinvolgente rispetto ai report economici.

La macchina fotografica diventò così il mezzo scelto per comunicare ciò che le statistiche non potevano raccontare: il volto umano delle crisi economiche, le sofferenze silenziose dietro i grandi numeri. L’economia, disciplina che aveva scelto per comprendere il mondo, gli sembrò improvvisamente fredda e lontana dalle vite reali delle persone. Salgado decise allora di abbandonare la promettente carriera da economista per dedicarsi completamente alla fotografia.

La sua formazione marxista e il suo approccio umanistico non scomparvero, ma trovarono nuova vita nelle immagini che iniziò a realizzare con sempre maggiore consapevolezza. Progetti come “Workers”, dedicato alla dignità e allo sfruttamento del lavoro umano, “Exodus”, che documenta il dramma delle migrazioni forzate, e “Genesis”, viaggio alle origini del pianeta e della civiltà umana, dimostrano chiaramente come Salgado non abbia mai abbandonato lo sguardo dell’economista critico, traducendolo però in un linguaggio universale e immediatamente comprensibile: quello visivo.

In questo contesto si inserisce perfettamente il capolavoro cinematografico “Il sale della terra”, diretto da Wim Wenders insieme al figlio di Salgado, Juliano Ribeiro. Questo documentario magistrale esplora non solo l’opera artistica di Salgado, ma anche la sua complessità interiore, la crisi personale, la rinascita e l’intimo rapporto con la famiglia che tanto ha influito sulle sue scelte e sul suo percorso. Wenders coglie con rara sensibilità il conflitto profondo tra dolore e speranza, e ci restituisce l’immagine di un uomo che ha saputo trasformare l’angoscia in azione, il dolore in empatia universale.

Attraverso la lente di Wenders e Juliano Ribeiro, comprendiamo quanto profondamente Salgado abbia vissuto l’atto fotografico come impegno morale e politico. Ogni sua immagine è un documento che parla di giustizia, di diritti negati, di dignità riscattata attraverso la denuncia e la bellezza. Non estetizzazione, ma consapevolezza etica tradotta in poesia visiva.

La grandezza artistica di Sebastião Salgado risiede anche nel suo peculiare stile fotografico, frutto di una raffinata alchimia tra tecnica analogica, sperimentazione digitale e visione poetica del mondo. Salgado scelse fin dall’inizio di lavorare esclusivamente in bianco e nero, consapevole della forza evocativa e simbolica di questa scelta cromatica. Privare le immagini del colore significava per lui restituire all’osservatore l’essenza stessa della realtà, riducendo al minimo le distrazioni e concentrando l’attenzione sui volti, sui gesti, sulle forme.

Nei primi decenni della sua carriera utilizzò prevalentemente pellicole Kodak Tri-X, che gli permettevano di catturare immagini con una grana pronunciata e un contrasto drammatico. In camera oscura, Salgado interveniva con paziente meticolosità sui negativi, applicando manualmente sostanze chimiche per accentuare o attenuare dettagli e contrasti. Questo approccio artigianale conferiva alle sue immagini una profondità visiva e una qualità quasi scultorea, che rendeva ogni stampa un pezzo unico e irripetibile.

Con l’evoluzione della tecnologia e l’arrivo del digitale, Salgado seppe adattarsi senza perdere la sua cifra stilistica distintiva. Durante la realizzazione di “Genesis”, iniziò a utilizzare fotocamere digitali Canon ad alta risoluzione. Tuttavia, rimase fedele alla filosofia analogica, disattivando lo schermo della fotocamera per evitare distrazioni e scegliendo le immagini tramite provini a contatto stampati, usando una lente di ingrandimento. Questa scelta apparentemente anacronistica evidenzia il suo desiderio di mantenere un contatto fisico e meditato con l’immagine, lontano dalla frenesia digitale contemporanea.

La post-produzione delle sue fotografie digitali è diventata una vera e propria arte, un meticoloso processo che include elaborazioni tonali raffinate, interventi selettivi per accentuare contrasti e dettagli, e l’aggiunta di grana digitale tramite software specifici come DxO FilmPack. Inoltre, per preservare a lungo termine il suo lavoro, Salgado faceva trasferire i file digitali su pellicola negativa Ilford Delta in grande formato, unendo così l’efficienza della tecnologia moderna alla durabilità delle tecniche tradizionali.

Negli ultimi anni, il culmine tecnico della sua produzione è stato raggiunto con le stampe al platino, realizzate in collaborazione con il laboratorio Salto Ulbeek in Belgio. Questo antico e nobile processo prevede la creazione di negativi speciali a partire dai file digitali, stampati successivamente su carte pregiate con una ricchezza tonale e una durata senza pari. Queste stampe rappresentano l’apice della sua ricerca estetica e tecnica, testimoniando la dedizione assoluta di Salgado alla qualità e alla longevità delle sue opere.

Lo stile e la tecnica di Salgado non sono mai stati fine a sé stessi, ma sempre al servizio di una visione umanistica e filosofica: mostrare la bellezza e la dignità dell’essere umano anche nelle situazioni più drammatiche. È proprio questa coerenza tra forma e contenuto, tra tecnica e poesia, che rende le fotografie di Sebastião Salgado non semplici immagini, ma autentiche testimonianze artistiche e morali del nostro tempo.

Perché piantare alberi può cambiare una vita?

Alla fine del lungo percorso umano e artistico di Sebastião Salgado, ciò che resta impresso non è soltanto l’immensa bellezza delle sue fotografie o l’indubbia maestria tecnica, bensì la potenza etica e filosofica del suo sguardo. Salgado non è stato semplicemente un fotografo: è stato un umanista visivo, un testimone impegnato, un poeta della realtà. La sua eredità più profonda risiede proprio nella capacità di trasformare l’immagine in un messaggio universale di speranza e responsabilità. Nel risanamento delle terre del Minas Gerais, nel gesto semplice e potente di piantare alberi, Salgado ci insegna che la redenzione è sempre possibile, che il dolore può diventare un seme di cambiamento, che la tragedia umana non è mai una condanna definitiva.

Questo messaggio attraversa tutta la sua opera, dalle prime fotografie degli anni Settanta alle ultime immagini di foreste rigenerate. In ogni scatto, in ogni progetto, c’è la consapevolezza che la vera fotografia non documenta soltanto, ma agisce nel mondo, creando consapevolezza e spingendo all’azione. Salgado ci lascia in eredità un invito profondo e appassionato a guardare il mondo con occhi nuovi, a riconoscere nella sofferenza e nella bellezza la medesima dignità umana.

La sua grandezza sta nell’aver saputo unire etica ed estetica, denuncia e poesia, tecnica e anima. Davanti alle sue fotografie, non resta che il silenzio: un silenzio carico di gratitudine, rispetto e riflessione. Un silenzio che è, forse, la forma più alta di omaggio a un uomo che ci ha insegnato a vedere, e a comprendere.

 

Fonti bibliografiche e documentarie:

  • Sebastião Salgado, Dalla mia terra alla Terra, Contrasto, 2014.
  • Sebastião Salgado, Genesi, Taschen, 2013.
  • Sebastião Salgado, Exodus, Taschen, 2000.
  • Sebastião Salgado, Workers. La mano dell’uomo, Contrasto, 1993.
  • Sebastião Salgado, Amazônia, Taschen, 2021.

Documentari e film:

  • Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, Il sale della terra, 2014, documentario.

Fonti web e articoli specialistici:

Fonti accademiche e critiche:

  • Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, 2003 (riflessioni critiche sull’estetizzazione del dolore nella fotografia).
  • Articoli critici su Sebastião Salgado, pubblicati su riviste specializzate come “Aperture” e “National Geographic”.

 

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