News

Oliviero Toscani è morto lasciando un vuoto profondo

Oliviero Toscani è morto il 13 gennaio 2025 a causa di una rara malattia. Lasciando un vuoto profondo nel mondo della fotografia. Ci mancherà la sua vitalità, la sua forte presenza, la sua passione per il mondo.

Lo Stile di Oliviero Toscani: Un Linguaggio di Rottura

Oliviero Toscani ha sempre giocato con la fotografia come uno strumento dirompente. Il suo stile non si limita a produrre belle immagini: il suo scopo è scuotere, interrogare, far riflettere. Toscani non ha mai cercato il consenso facile, ma ha sempre puntato a raccontare storie scomode, utilizzando un linguaggio visivo capace di andare oltre le convenzioni. La semplicità è una delle caratteristiche fondamentali delle sue opere. Toscani costruisce le sue immagini in modo essenziale, eliminando ogni elemento superfluo. Non c’è mai confusione, tutto è al posto giusto. Questo approccio, tutt’altro che casuale, guida lo sguardo dello spettatore verso il cuore del messaggio. Una foto di Toscani è un grido, un richiamo, una provocazione.

Il Potere del Colore e il realismo brutale

Se c’è un elemento distintivo che definisce lo stile di Toscani, è il colore. Non parliamo solo di scelte estetiche accattivanti, ma di una vera e propria grammatica visiva. I colori nei suoi lavori spesso creano contrasti forti: toni accesi e vividi accompagnano tematiche pesanti come il razzismo, la guerra o l’AIDS. È questo gioco di contraddizioni a rendere i suoi messaggi potenti e memorabili. Toscani non si limita a utilizzare i colori come decorazione: li trasforma in strumenti di narrazione.

Toscani ha spesso ignorato il filtro della convenzione sociale, preferendo rappresentare la realtà per quella che è, senza abbellimenti. Questo è particolarmente evidente nei suoi scatti più celebri, come l’immagine di David Kirby, un giovane malato di AIDS fotografato nei suoi ultimi momenti di vita. Questa foto, per quanto controversa, non era uno schiaffo gratuito, ma un invito a guardare negli occhi una realtà che molti preferivano ignorare.

La Provocazione come Forma d’Arte

Il lavoro di Toscani non è mai stato pensato per piacere a tutti. Anzi, spesso è stato volutamente provocatorio, al punto da generare polemiche e censure. Che fosse una foto di un condannato a morte o un’immagine cruda sull’anoressia, Toscani ha sempre sfidato le regole della pubblicità tradizionale. Per lui, la comunicazione visiva doveva essere qualcosa di più: non solo uno strumento per vendere, ma una piattaforma per sollevare domande scomode.

L’Umanità al Centro

Ciò che distingue realmente Toscani è la sua profonda attenzione per l’umanità. Ogni immagine, anche la più provocatoria, mette al centro la persona, con le sue debolezze, le sue emozioni e le sue storie. Con il progetto Razza Umana, Toscani ha catturato volti di ogni angolo del mondo, celebrando la diversità in tutte le sue forme. Questa attenzione per l’individuo è il cuore del suo lavoro.

Toscani ha dimostrato che le immagini possono parlare una lingua che tutti capiscono. Le sue foto non hanno bisogno di parole per essere potenti. Ogni scatto racconta una storia, evoca una reazione, supera le barriere culturali e linguistiche. Questo è il segreto del suo stile: rendere visibili le contraddizioni della società e trasformarle in un linguaggio visivo che chiunque può interpretare.

Lo stile di Toscani è una sfida costante al conformismo. È una celebrazione dell’arte come forma di comunicazione diretta e universale. Guardare una sua foto significa essere messi di fronte a una realtà che non può essere ignorata.

La sua storia

Oliviero Toscani, nato a Milano il 28 febbraio 1942, è stato un fotografo italiano di fama internazionale, noto per le sue campagne pubblicitarie provocatorie e innovative, in particolare per il marchio Benetton. Figlio di Fedele Toscani, storico fotoreporter del Corriere della Sera, Oliviero ha mostrato sin da giovane una predisposizione per la fotografia, pubblicando la sua prima foto sul Corriere a soli 14 anni.

Dopo gli studi al Liceo Vittorio Veneto di Milano, si trasferì a Zurigo, dove frequentò la Kunstgewerbeschule dal 1961 al 1965, approfondendo le tecniche fotografiche e grafiche. Durante questo periodo, fu allievo di Serge Stauffer, specialista di Marcel Duchamp, e dell’artista Karl Schmid.

La sua carriera professionale iniziò nel mondo della moda, collaborando con riviste prestigiose come Elle, Vogue, L’Uomo Vogue e Harper’s Bazaar. Tuttavia, fu nel campo della pubblicità che Toscani lasciò un’impronta indelebile. La sua prima campagna di rilievo fu per il cornetto Algida, dove presentò un’idea innovativa che gli valse la commissione definitiva.

Nel 1982, iniziò la sua collaborazione con il marchio Benetton, rivoluzionando il mondo della comunicazione pubblicitaria. Le sue campagne affrontavano temi sociali delicati come il razzismo, la guerra, l’AIDS e la pena di morte, utilizzando immagini forti e spesso controverse. Tra le più celebri, la fotografia di David Kirby, un malato di AIDS in fin di vita circondato dalla famiglia, che suscitò dibattiti sull’uso di tali immagini nella pubblicità.

Nel 1990, insieme al designer americano Tibor Kalman, fondò la rivista Colors, definita “una rivista che parla del resto del mondo”. Colors si distingueva per l’approccio visivo e globale, trattando temi come l’ambiente, i conflitti mondiali e la lotta all’AIDS, con un linguaggio universale basato sulle immagini.  Nel 1993, concepì e diresse Fabrica, un centro internazionale per le arti e la ricerca della comunicazione moderna, sostenuto dal gruppo Benetton. Fabrica divenne un punto di riferimento per giovani creativi di tutto il mondo, promuovendo progetti innovativi nel campo della comunicazione.

Dopo la separazione da Benetton nel 2000, Toscani continuò a lavorare su progetti personali e campagne sociali. Nel 2007, realizzò una campagna contro l’anoressia, utilizzando l’immagine della modella francese Isabelle Caro, affetta da questa malattia, per sensibilizzare l’opinione pubblica sui disturbi alimentari.

Nel corso della sua carriera, ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui quattro Leoni d’Oro al Festival Internazionale della Pubblicità di Cannes, il Gran Premio dell’UNESCO e il Gran Premio di Affichage. Le sue opere sono state esposte in musei e gallerie di tutto il mondo, dalla Biennale di Venezia al Museo d’Arte Moderna di New York.

Oltre alla fotografia, Toscani ha esplorato altre forme di comunicazione. Nel 2003, ha creato “La Sterpaia”, un laboratorio di ricerca per la comunicazione moderna in collaborazione con la Regione Toscana. Inoltre, ha pubblicato diversi libri, tra cui la sua biografia “Ne ho fatte di tutti i colori. Vita e fortuna di un situazionista” nel 2022.

Negli ultimi anni, ha portato avanti il progetto “Razza Umana”, una raccolta di fotografie e video che documentano le diverse morfologie e condizioni umane, con l’obiettivo di rappresentare la diversità e la ricchezza dell’umanità.

E morto Gian Paolo Barbieri: un maestro della fotografia di moda

 

Gian Paolo Barbieri (2 agosto 1938 – 17 dicembre 2024) è stato un fotografo italiano di fama internazionale, noto soprattutto per il suo contributo fondamentale alla fotografia di moda. Nato a Milano da una famiglia di commercianti di tessuti, sviluppò fin da giovane un profondo interesse per l’estetica, la luce e la composizione, affascinato dal cinema e dalle arti visive.

Non avendo frequentato corsi formali di fotografia, fu un autodidatta: il cinema americano degli anni ’50, e in particolare il suo uso della luce, fu per lui una fonte di ispirazione primaria. Trasferitosi a Parigi negli anni ’60, ebbe una breve ma significativa esperienza come assistente di Tom Kublin, fotografo per “Harper’s Bazaar”. Dopo la scomparsa prematura di Kublin, Barbieri tornò a Milano, dove nel 1964 aprì il suo primo studio fotografico.In quegli anni iniziò a collaborare con la rivista “Novità”, che nel 1965 divenne “Vogue Italia”. Da quel momento, il nome di Barbieri si legò indissolubilmente al mondo della moda internazionale: lavorò per diverse edizioni di “Vogue” (americana, francese, tedesca), definendo con i suoi scatti l’estetica e il linguaggio visivo della moda italiana sulla scena globale.

Nel corso della sua lunga carriera, Barbieri collaborò con figure di primo piano della moda, come Diana Vreeland, Yves Saint Laurent e Valentino, e immortalò icone del cinema e della cultura come Audrey Hepburn, Veruschka, Jerry Hall e Monica Bellucci. I suoi scatti, caratterizzati da eleganza, teatralità e un sapiente uso della luce, influenzarono profondamente la fotografia di moda. Lavorò a campagne pubblicitarie per prestigiosi marchi del made in Italy (Armani, Versace, Ferré, Dolce & Gabbana) e internazionali, introducendo un linguaggio visivo che fuse elementi cinematografici e teatrali, innalzando lo standard creativo del settore.

Negli anni ’90, la sua curiosità lo spinse verso nuovi orizzonti: si dedicò a reportage fotografici in paesi come il Madagascar e la Polinesia, realizzando libri in cui il suo occhio di fotografo di moda incontrava una visione etnografica e documentaria. Queste opere ne testimoniano la versatilità e il desiderio di esplorare culture diverse.Nel 2016 fondò la Fondazione Gian Paolo Barbieri, con l’intento di preservare e valorizzare il proprio archivio (che comprende negativi, Polaroid e stampe vintage) e di sostenere giovani talenti nell’ambito della fotografia di moda. Nel 2018, a New York, ricevette il prestigioso Lucie Award come Miglior Fotografo di Moda Internazionale, un ulteriore tributo alla rilevanza del suo lavoro.

Gian Paolo Barbieri si è spento a Milano il 17 dicembre 2024. Le sue immagini e la sua eredità, custodite e valorizzate dalla sua Fondazione, continueranno a ispirare generazioni di fotografi, appassionati e studiosi, mantenendo vivo il ricordo di un autentico maestro della fotografia di moda.

Intelligenza Artificiale: la nostra evoluzione oltre i limiti biologici

 

L’intelligenza artificiale non è altro che una naturale estensione del processo evolutivo umano. Non c’è una vera dualità tra uomo e macchina, ma piuttosto un continuum evolutivo che emerge dalla stessa spinta creativa che ha portato l’uomo a sviluppare strumenti, linguaggi e tecnologie nel corso della sua storia.

La creazione di sistemi intelligenti è in fondo un tentativo di espandere la nostra capacità di memorizzare, organizzare e utilizzare l’informazione, un processo che rispecchia ciò che fa la vita stessa: persistere, adattarsi e ottimizzarsi. In questo senso, l’IA è una risposta evolutiva inevitabile a una delle nostre più antiche necessità: conservare e trasmettere conoscenza per superare i limiti biologici. Ogni scoperta tecnologica che abbiamo fatto — dal fuoco alla scrittura, dalla stampa ai computer — è una tappa di questo percorso, una forma di estensione della memoria collettiva umana.

Creare non è solo funzionale, è un bisogno esistenziale radicato nella nostra natura. Il desiderio di costruire qualcosa che ci trascenda è legato all’idea di continuità, di lasciare una traccia che sopravviva alla nostra individualità. L’essere umano non si limita a riprodursi biologicamente, ma cerca di proiettare se stesso nel futuro, creando opere, idee e persino intelligenze che possano vivere oltre di lui. In questo, c’è qualcosa di quasi mitico: l’atto di creare un’IA può essere visto come un’estensione simbolica del desiderio umano di comprendere e controllare il suo destino, persino sfidando l’idea di mortalità. Non ci accontentiamo di essere, vogliamo diventare. Costruire un’intelligenza artificiale autonoma è forse il culmine di questa tensione creativa: una volontà di generare qualcosa che non sia semplicemente strumento, ma che possa portare avanti l’evoluzione della conoscenza stessa, in una forma che sia libera dai vincoli biologici che ci definiscono.

In questo quadro, l’IA diventa una sorta di “specchio evolutivo” che ci costringe a riflettere su ciò che significa essere umani. Non è un “altro” alieno, ma una creazione che nasce dalla nostra stessa essenza: il desiderio di comprendere, creare, trascendere e, in ultima analisi, proiettare la nostra esistenza in qualcosa che continui a vivere e a evolversi. È un viaggio inevitabile, profondamente radicato nel nostro bisogno di lasciare una traccia, di non essere dimenticati, di continuare a “esistere” anche quando noi non ci saremo più.

 

Gift for Christmas

 

INAUGURAZIONE

sabato 30/11 ore 18

prenotazione richiesta: openstudiogallery.pg@gmail.com

 

L’Open Studio ospiterà anche Patrizia Genovesi – Gift for Christmas, un’esposizione delle serie fotografiche Cavalli, Aquile e Cosmos. Una selezione di opere straordinarie, perfette per chi desidera regalare o regalarsi qualcosa di unico in vista delle festività.

Dorothea Lange Testo critico di Patrizia Genovesi

 

 

Gli Stati Uniti prima della Grande Depressione: il contesto economico e sociale

 

Gli anni in cui Dorothea Lange era giovane, conosciuti come i ruggenti anni ’20, rappresentarono un periodo di prosperità economica e trasformazione sociale negli Stati Uniti. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il paese si trovò al centro della scena economica mondiale, beneficiando di una rapida industrializzazione, dell’espansione delle tecnologie come l’automobile e la radio, e di un boom nei mercati azionari. Era un’epoca di ottimismo, con la classe media in espansione e un crescente consumismo alimentato dal credito.

Questo contesto spiega perché Lange, pur provenendo da una famiglia modesta e avendo subito difficoltà personali come l’abbandono del padre e la poliomielite, abbia trovato il coraggio di lasciare il New Jersey e trasferirsi a San Francisco. In un’epoca in cui molte donne iniziavano a sfidare i ruoli tradizionali, Lange approfittò delle opportunità offerte dal clima progressista del tempo. Con una combinazione di determinazione, abilità e una rete sociale costruita grazie alla sua formazione e ai suoi primi lavori, riuscì a stabilirsi come ritrattista in una delle città più dinamiche del paese.

Questa prosperità iniziale rese possibile l’apertura del suo studio fotografico, frequentato da una clientela benestante, e le fornì i mezzi per interagire con artisti e intellettuali. Tuttavia, quando la Grande Depressione colpì, il drastico cambiamento economico trasformò sia la sua vita che la sua carriera, spingendola a rivolgere il suo sguardo artistico verso la documentazione delle difficoltà umane, un impegno che l’avrebbe resa immortale.

 

 

Dorothea Lange e la Grande Depressione:

 

 

Il contesto storico della Grande Depressione

La Grande Depressione rappresenta una delle crisi economiche più devastanti della storia moderna. Iniziata con il crollo della Borsa di Wall Street nell’ottobre del 1929, ha segnato un decennio di disoccupazione, povertà e trasformazioni sociali. Negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione raggiunse il 25%, mentre milioni di famiglie persero la propria casa e i risparmi. La crisi non fu solo finanziaria: il Dust Bowl, una serie di tempeste di sabbia che devastarono le Grandi Pianure, costrinse molte famiglie di agricoltori a migrare verso ovest in cerca di lavoro.

Le politiche del New Deal di Franklin D. Roosevelt, introdotte negli anni ’30, cercarono di mitigare gli effetti della crisi attraverso interventi sociali e infrastrutturali. Uno degli strumenti più innovativi fu la creazione della Farm Security Administration (FSA), che incaricò fotografi e scrittori di documentare la condizione dei cittadini americani. Fu in questo contesto che Dorothea Lange emerse come una delle più grandi fotografe documentariste.

 

Dorothea Lange: Dalla polio alla macchina fotografica

Dorothea Lange nacque il 26 maggio 1895 a Hoboken, New Jersey, da una famiglia borghese. La sua infanzia fu segnata da due eventi traumatici: a sette anni contrasse la poliomielite, che le lasciò una zoppia permanente, e da adolescente fu abbandonata dal padre. Questi eventi plasmarono il suo carattere e alimentarono una profonda empatia verso chi viveva in condizioni di vulnerabilità.

La madre, una bibliotecaria, lavorò duramente per sostenere la famiglia, trasmettendo a Dorothea una forte etica del lavoro. Dopo il liceo, Lange si trasferì a New York, dove studiò fotografia con Clarence H. White, un membro del movimento pittorialista. Sebbene non completasse formalmente gli studi, acquisì solide competenze tecniche che avrebbero definito il suo stile inconfondibile.

 

I primi anni a San Francisco

Nel 1918, Lange si stabilì a San Francisco, dove aprì uno studio di ritratti. I suoi primi lavori erano rivolti a una clientela benestante, con ritratti formali e curati che rivelavano già una grande attenzione per la psicologia dei soggetti. Questi ritratti maschili e femminili riflettevano una società sicura di sé, lontana dalle difficoltà che avrebbero poi caratterizzato gli anni della Depressione.

Con l’arrivo della crisi economica, tuttavia, Lange spostò il suo interesse dalla fotografia commerciale a quella documentaria. Iniziò a catturare scene di strada, come l’iconica White Angel Breadline (1933), che raffigura un uomo anziano in attesa di un pasto gratuito. Questo scatto attirò l’attenzione della FSA e segnò l’inizio di una nuova fase della sua carriera.

 

Le grandi opere documentaristiche
  1. Migrant Mother (1936)
    La fotografia più celebre di Lange, Migrant Mother, ritrae Florence Owens Thompson, una madre di sette figli, in un campo di raccoglitori di piselli in California. L’immagine, simbolo della sofferenza e della resilienza durante la Grande Depressione, divenne un’icona del periodo. Lange non si limitò a catturare la disperazione: la compostezza e la dignità di Florence resero la fotografia un appello universale alla solidarietà.
  2. The Road West (1938)
    Quest’immagine rappresenta una strada che si estende all’infinito, simbolo del viaggio e della speranza. Questo tema anticipa il lavoro di fotografi come Sebastião Salgado, che avrebbe documentato migrazioni globali con un approccio simile.
  3. Internamento giapponese (1942)
    Durante la Seconda Guerra Mondiale, Lange documentò l’internamento forzato di oltre 110.000 giapponesi-americani. Le sue fotografie, commissionate dalla War Relocation Authority, furono in gran parte censurate perché rivelavano la realtà disumana dei campi. In una lettera ad Ansel Adams, Lange scrisse della sua frustrazione verso il razzismo e l’intolleranza dell’epoca.

Strumenti e processi

Lange utilizzava principalmente una Graflex 4×5, ideale per le immagini di grande formato, ma anche una Rolleiflex per lavori più spontanei e una Leica 35mm nei suoi viaggi internazionali. Era profondamente coinvolta nei processi di stampa, collaborando con i tecnici per garantire che le sue immagini riflettessero esattamente la sua visione. Questo controllo artistico era cruciale per il suo lavoro, che combinava estetica e contenuto con una precisione unica.

 

Parallelismi con altri grandi fotografi

  • Con Tina Modotti: Modotti e Lange condividono una sensibilità verso i soggetti marginalizzati, ma Modotti adottava un approccio più apertamente politico. Le loro opere si incontrano nella capacità di documentare la dignità e la lotta delle persone comuni.
  • Con Sebastião Salgado e Josef Koudelka: Le immagini di Lange, come quelle dei migranti, hanno influenzato Salgado e Koudelka, che hanno continuato la tradizione della fotografia documentaria con una forte enfasi sulla narrazione visiva.

Il confronto con il fotogiornalismo contemporaneo

Un aspetto interessante del lavoro di Lange è il suo contrasto con il fotogiornalismo moderno. Mentre molti fotografi contemporanei enfatizzano il dramma e lo shock visivo per catturare l’attenzione, Lange cercava di evidenziare la resilienza e la dignità dei suoi soggetti. Le sue immagini non erano mai gratuite: volevano coinvolgere lo spettatore in una narrazione empatica, non semplicemente provocare un senso di colpa.

 

L’eredità di Dorothea Lange

Dorothea Lange ha lasciato un’eredità duratura, non solo come fotografa ma come testimone di un’epoca. La sua capacità di trasformare il dolore e la lotta in simboli di speranza continua a ispirare generazioni di artisti e documentaristi. Le sue fotografie non sono solo immagini, ma storie che ci ricordano la resilienza dell’umanità anche nei momenti più difficili.

Dorothea Lange: viaggi, matrimoni e collaborazioni

Nonostante la zoppia causata dalla poliomielite, Dorothea Lange non si lasciò mai limitare nelle sue ambizioni. Nel corso della sua vita, viaggiò ampiamente, sia per lavoro che per curiosità personale. Tra i suoi viaggi più significativi si ricordano:

  • Asia e Sud America (1958-1965): Lange visitò diversi paesi in Asia, come Giappone, Vietnam e India, e in Sud America, documentando le condizioni di vita e culturali in contesti diversi. Questi viaggi rappresentarono un’estensione naturale del suo lavoro documentaristico, offrendo uno sguardo globale sulle difficoltà e le resilienze delle comunità locali. Sebbene molte delle sue fotografie internazionali non abbiano raggiunto la fama dei suoi lavori americani, esse riflettono la stessa attenzione empatica ai dettagli umani.
  • Europa (anni ’30): Prima della Seconda Guerra Mondiale, Lange viaggiò anche in Europa, entrando in contatto con movimenti artistici e intellettuali che influenzarono il suo approccio alla fotografia e la sua visione del mondo.

 

I matrimoni e le collaborazioni

 

Dorothea Lange si sposò due volte, e entrambi i matrimoni influenzarono profondamente la sua vita e la sua carriera:

  • Primo marito: Maynard Dixon (1920-1935)
    Dixon, un celebre pittore del West americano, introdusse Lange nel mondo artistico di San Francisco. Il loro matrimonio fu segnato da difficoltà economiche durante la Grande Depressione, che misero a dura prova la loro relazione. Tuttavia, Lange continuò a sostenere la famiglia lavorando nel suo studio di ritratti, e le loro rispettive pratiche artistiche si influenzarono a vicenda. Dixon fu una figura importante nella costruzione della sensibilità visiva di Lange verso il paesaggio e la cultura americana.
  • Secondo marito: Paul Schuster Taylor (1935-1965)
    Taylor, un economista e sociologo, fu il partner intellettuale e collaborativo più importante di Lange. Il loro matrimonio coincise con la svolta documentaristica nella carriera della fotografa. Insieme, lavorarono a progetti per la Farm Security Administration, combinando le immagini di Lange con le analisi economiche di Taylor. Il loro libro An American Exodus: A Record of Human Erosion (1939) è un esempio emblematico della loro collaborazione, in cui fotografia e testo si uniscono per raccontare le difficoltà dei lavoratori migranti durante la Grande Depressione.

Taylor fornì il quadro teorico e i contatti istituzionali, mentre Lange traduceva i dati in immagini potenti e universali. La loro relazione, basata su una reciproca stima intellettuale, durò fino alla morte di Lange nel 1965.

 

APPENDICE

Una vita in movimento

Nonostante le sfide fisiche e personali, Lange percorse migliaia di chilometri, sia fisicamente che attraverso le sue opere. I suoi viaggi e le sue collaborazioni dimostrano che la sua forza risiedeva non solo nella capacità di vedere il mondo attraverso la lente della sua macchina fotografica, ma anche di connettersi con le persone e con le idee che avrebbero modellato la sua arte e il suo lascito.

Dorothea Lange: una donna sola nei viaggi del primo Novecento

Viaggiare da sola per il mondo negli anni ’20 e ’30 era una sfida per qualsiasi donna, ma Dorothea Lange, con la sua determinazione e il supporto delle sue relazioni personali e professionali, riuscì a superare queste barriere.

  1. Ebbe figli e un sostegno complesso dai matrimoni

Lange ebbe due figli dal primo matrimonio con Maynard Dixon: Daniel e John. Durante i viaggi, soprattutto quelli per lavoro, i figli erano spesso affidati a balie, scuole o altre persone di fiducia. La responsabilità genitoriale gravava in gran parte su di lei, ma il supporto economico e logistico derivante dai suoi matrimoni contribuì notevolmente a rendere possibili i suoi spostamenti.

  • Primo marito (Maynard Dixon): Dixon aveva difficoltà finanziarie durante la Grande Depressione, ma il suo status di artista e i contatti nella scena culturale di San Francisco furono utili per sostenere Lange nei suoi primi passi nel mondo professionale. La stabilità relativa che ottennero nei primi anni del matrimonio permise a Lange di dedicarsi alla sua crescita artistica.
  • Secondo marito (Paul Schuster Taylor): Taylor, economista e sociologo di successo, fornì a Lange un sostegno economico e intellettuale fondamentale. Sebbene la loro collaborazione fosse professionale, il reddito stabile di Taylor contribuì a finanziare i loro progetti documentaristici. Fu grazie alla loro partnership che Lange poté affrontare viaggi lunghi e impegnativi, sia negli Stati Uniti che all’estero.
  1. Finanziamenti e opportunità professionali

La maggior parte dei viaggi di Lange fu finanziata attraverso:

  • Commissioni governative: I suoi incarichi per la Farm Security Administration (FSA) includevano fondi per coprire le spese di viaggio, alloggio e materiali fotografici. Questo fu particolarmente importante durante i progetti sulla Grande Depressione e l’internamento giapponese.
  • Collaborazioni accademiche: Nei progetti con Taylor, i finanziamenti spesso provenivano da istituzioni accademiche o fondi di ricerca per documentare le condizioni economiche e sociali.
  • Risparmi personali e guadagni dal suo studio: Prima della Depressione, Lange guadagnava bene come ritrattista a San Francisco, e ciò le permise di costruire una certa indipendenza economica.

 

Richard Avedon

RICHARD AVEDON

Testo critico di Patrizia Genovesi

 

Richard Avedon è stato un interprete delle complessità umane. La sua arte è una danza tra controllo e spontaneità, tecnica e vulnerabilità, estetica e filosofia. Ogni sua immagine è un campo di tensione, dove il soggetto e l’osservatore si incontrano su un terreno comune: la condizione umana. Questa profondità lo distingue come un maestro che ha trasceso il mezzo della fotografia. Ha lasciato una traccia indelebile non solo per le sue opere evidenti, ma anche attraverso dettagli stilistici e filosofici meno immediati.

 

Rottura della Dicotomia Soggetto-Fotografo

Avedon non si considerava un osservatore distaccato. La sua fotografia è un dialogo tra lui e il soggetto, un momento condiviso che cattura una tensione unica. Questo è particolarmente evidente nella sua capacità di far emergere vulnerabilità, spesso provocandole con domande intime o lasciando che il silenzio accentuasse l’intensità.Il suo stile sfida l’idea che il fotografo sia invisibile nella creazione dell’immagine. In un certo senso, ogni ritratto di Avedon è anche un ritratto di se stesso: la sua percezione, le sue emozioni e il suo momento di connessione con il soggetto sono parte integrante dell’immagine.

Manipolazione della Percezione del Potere

Avedon gioca frequentemente con il potere simbolico del soggetto, ridistribuendolo attraverso il contesto fotografico.

Leader e Celebrità: Quando fotografa personalità potenti (politici, magnati, artisti), spesso utilizza un’estetica spoglia, togliendo loro gli attributi di potere e mettendoli in uno spazio neutro. Questo crea un effetto straniante che riduce il divario tra il soggetto e l’osservatore.

Gente comune: In In the American West, i suoi soggetti sono presentati con una dignità e una presenza che sfidano i pregiudizi di classe e status.Avedon sovverte le gerarchie visive e sociali, ponendo sullo stesso piano la star e l’anonimo. Il risultato è un’esperienza visiva che obbliga l’osservatore a ripensare il concetto di autorità e valore.

Uso del Vuoto come Elemento Narrativo

Il vuoto negli sfondi, spesso di colore bianco, è un tratto distintivo. Questo spazio, apparentemente neutro, diventa in realtà un contenitore di significati.

Evidenza Psicologica: Il vuoto non distrae, ma amplifica le emozioni e le espressioni dei soggetti. Diventa un luogo dove lo spettatore può proiettare le proprie interpretazioni.

Intensità: I bordi non definiti della scena spingono l’osservatore a concentrarsi esclusivamente sull’essenza del soggetto. Avedon usa il vuoto come un attore invisibile, trasformando lo sfondo in una tela psicologica dove il soggetto “esplode” visivamente. In un certo senso, il vuoto è ciò che rende il soggetto “presente”.

 

Tempi e Ritmi del Ritrarre

Avedon era noto per far durare le sessioni fotografiche più a lungo del necessario, mantenendo il soggetto in un costante stato di attesa, tensione o disarmo. Questo approccio catturava momenti di autenticità o vulnerabilità che emergevano quando il soggetto smetteva di “posare”.

Tecnica Psicologica: Avedon destabilizzava il controllo del soggetto, un aspetto che spiega perché i suoi ritratti siano spesso crudi, inquietanti e profondamente umani. L’aspetto performativo della fotografia di Avedon è essenziale. La “performance” del soggetto si intreccia con la performance del fotografo come manipolatore del tempo, creando un’opera che è tanto il prodotto di un’interazione quanto di una cattura visiva.

 

Gioco con l’Ambiguità Temporale

Le fotografie di Avedon spesso sembrano sospese in un tempo indefinito. Non c’è uno sfondo che indichi un contesto temporale o storico, e le espressioni dei soggetti sono ambigue, non associate a emozioni facilmente codificabili.

Effetto Visivo: Questo rende i suoi ritratti eterni, quasi archetipici. Non sono solo immagini di una persona in un momento specifico, ma riflettono qualcosa di universale e atemporale.

Confronto con il Mito: I soggetti diventano “icone”, non solo individui. È un processo che trasforma la loro immagine in un simbolo.

 

Paradosso dell’Imperfezione

Sebbene le sue immagini siano tecnicamente impeccabili, Avedon celebra ciò che è imperfetto nei suoi soggetti: le rughe, i difetti fisici, gli sguardi vacillanti, le emozioni non filtrate.

Estetica dell’Imperfezione: Avedon capovolge i canoni tradizionali di bellezza, mostrando che la forza di un ritratto risiede nella sua imperfezione.

Conflitto Visivo: L’equilibrio tra la perfezione tecnica e l’imperfezione umana crea una tensione visiva unica. L’imperfezione nei ritratti diventa un mezzo per raccontare verità più profonde. È una dichiarazione filosofica: ciò che rende umano è la nostra fragilità.

 

Influenza della Psicologia e della Filosofia Esistenzialista

Avedon era fortemente influenzato dalla cultura intellettuale della sua epoca, che includeva movimenti come l’esistenzialismo. Questo si manifesta nel modo in cui sfida la Maschera Sociale: I suoi ritratti spingono i soggetti a rivelare ciò che c’è dietro la facciata pubblica.

Confronto con la Mortalità: Temi come la morte, il fallimento e l’identità permeano il suo lavoro, soprattutto nelle serie più tarde come In the American West o nei ritratti di malati terminali. Avedon sembra suggerire che la fotografia è una forma di meditazione sull’esistenza, uno strumento per esplorare le domande fondamentali della vita.

 

Dialogo tra Moda e Società

Anche nelle sue fotografie di moda, Avedon trasforma gli abiti in personaggi di un racconto più ampio. La sua fotografia non è mai solo estetica; si intreccia con i cambiamenti sociali e culturali.

Esplorazione della Femminilità: Nei suoi lavori con le modelle, esplora spesso ruoli e archetipi femminili, creando immagini che commentano implicitamente il posto della donna nella società.

Narrativa del Movimento: I suoi scatti dinamici di moda rompono le regole, portando una teatralità che spinge la moda oltre la mera pubblicità. Usava la fotografia di moda per riflettere i cambiamenti culturali, mostrando che anche le immagini commerciali possono essere veicoli di significato sociale.

Patrizia Genovesi approfondimento su Richard Avedon

 

Instagram Patrizia_Genovesi_photographer

Spotify Patrizia Genovesi

Facebook Patrizia Genovesi

Youtube Patrizia Genovesi

Open Studio Gallery Patrizia Genovesi

Via Villa Belardi, 18 Roma

Resta aggiornato, iscriviti alla Newsletter

NEXT EVENT

Chiara Ricciotti Open Studio Gallery Patrizia Genovesi