Nell’universo letterario di Italo Calvino, la realtà si manifesta come un tessuto complesso e in perenne metamorfosi, un mosaico di percezioni soggettive che sfidano la pretesa di un’oggettività assoluta. Calvino, maestro nell’uso di elementi fantastici, ci sollecita a indagare le profondità nascoste del reale e a riconoscere l’immaginazione come strumento vitale per decifrarlo. Egli concepisce l’immaginazione non come fuga, ma come ponte verso la comprensione di mondi altrimenti celati al di là dei nostri sensi, proponendo un’esplorazione che unisce fantasia e realtà.

Nel parallelo universo visivo di David LaChapelle, questa esplorazione assume la forma di fotografie ricche di simbolismo, dove il reale e l’immaginario si fondono in una critica vivace e talvolta provocatoria della cultura pop e delle sue dinamiche. L’arte di LaChapelle diventa veicolo di riflessione, un medium attraverso il quale l’osservatore è invitato a interrogare la realtà con nuovi occhi, spinto da quella stessa forza di interrogazione che pulsa nelle pagine di Calvino.

I due artisti, pur distinti nel mezzo espressivo, si ritrovano nell’essenza della loro ricerca: l’atto creativo come chiave di accesso a una realtà plasmabile e multiforme. Sia nel testo che nell’immagine, l’invito è a liberare la propria percezione, a riconoscere l’instabilità delle verità assunte e a cogliere la libertà nell’atto di reinterpretare il mondo. Calvino e LaChapelle, ognuno attraverso la propria arte, ci esortano a esercitare la nostra immaginazione per costruire significati nuovi, per considerare la realtà non come un dato immutabile, ma come un enigma in continuo divenire, una sfida all’acume e alla sensibilità di ogni individuo.

 

 

 

Italo Calvino e David LaChapelle, operando rispettivamente nella letteratura e nella fotografia, condividono una riflessione profonda sulla condizione umana e sul mondo contemporaneo, esprimendo la loro visione attraverso l’immaginazione e la metafora.

Utilizzano elementi dell’immaginario e del surreale per esplorare e critica la realtà: Calvino crea mondi fantastici che riflettono su temi come la ricerca di senso e l’identità, mentre LaChapelle usa immagini iperrealistiche e surreali per interrogare la cultura pop e il consumismo, esponendo la superficialità della società moderna.

La loro opera offre una critica incisiva della contemporaneità: Calvino, con la sottigliezza della sua prosa, esplora le complessità dell’esistenza e mette in discussione le convenzioni, mentre LaChapelle adotta un approccio visivamente provocatorio per critica i vizi della cultura popolare.

Nel modo in cui entrambi esplorano l’identità umana, Calvino utilizza la narrativa per indagare l’essenza dell’individuo, e LaChapelle esamina come l’identità sia influenzata dalla società dei media. Inoltre, la ricerca della bellezza e dell’estetica è centrale nel loro lavoro: Calvino cerca una bellezza nell’essenzialità e nell’importanza della forma, mentre LaChapelle usa un’estetica visiva esuberante per sollevare questioni più profonde. Nonostante le differenze nei mezzi espressivi, Calvino e LaChapelle sfruttano la potenza dell’immaginazione per trascendere il convenzionale, invitando a una riflessione sulla vita, sull’arte e sulla società.

 

 

 

OFFICINE FOTOGRAFICHE presenta

 

Un incontro tra fotografia e letteratura a cura di Patrizia Genovesi e Dario Puntuale

 

“INCHIOSTRO CALVINO, OBBIETTIVO LACHAPELLE”

 
 
 

MARZO 11 – 18.30

ROMA, OFFICINE FOTOGRAFICHE

Tra Immagine e Realtà:

Il Viaggio di Antonino nel Mondo della Fotografia

“L’avventura di un fotografo”, un racconto di Italo Calvino”

 

Attraverso “L’avventura di un fotografo”, racconto del 1970, Calvino ci invita a riflettere non solo sul potere e sui limiti della rappresentazione artistica, ma anche sulla nostra incessante ricerca di significato e comprensione in un mondo che sfugge continuamente ai nostri tentativi di catturarlo in una forma definitiva, “congelata”.

Il racconto ci immerge nell’avventura di Antonino Paraggi, un uomo che assume una iniziale posizione di distacco e critica verso la moda della fotografia, per poi lasciarsene gradualmente coinvolgere fino a diventarne ossessionato.

Il primo punto di svolta è la sua riflessione sulla doppia natura della fotografia di strumento per conservare ricordi e al tempo stesso lente attraverso la quale valutiamo il valore delle nostre esperienze. Il passaggio, in apparenza brevissimo, dalla “realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella” alla “realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata” è cruciale: significa rinunciare a dare alle nostre esperienze un valore intrinseco e ad esercitare una scelta su quale di esse meriti di essere immortalata, per assegnare alla fotografia il compito di confermare l’esistenza e fissarla in una forma tangibile e permanente. “Ciò che non è fotografato è perduto, è come se non fosse esistito, e quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può”.  La fotografia si trasforma da semplice atto meccanico a pratica esistenziale, che modella non solo come vediamo il mondo, ma anche come viviamo e ci rapportiamo ad esso, con il rischio che l’atto stesso del fotografare soppianti l’esperienza diretta.

Questa osservazione di Calvino, formulata oltre cinquant’anni fa, appare profetica in relazione al dilagare della fotografia che sperimentiamo ai giorni nostri in parallelo alla proliferazione dei social network.

Antonino acquista una vecchia macchina fotografica e inizia a riprendere l’amica Bice che si presta come modella. Attraverso il suo personaggio, Calvino passa in rassegna diversi approcci artistici e metodologici alla fotografia, mostrandone, in un crescendo di tensione emotiva, il valore e al tempo stesso l’insufficienza.

Antonino cerca inizialmente l’assoluta naturalezza del soggetto, per farne trasparire l’interiorità. “C’erano molte fotografie di Bice possibili e molte Bice impossibili a fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre.”

Insoddisfatto del risultato, Antonino si indirizza per la via opposta: “puntare sul ritratto tutto in superficie” che non rifugga dallo stereotipo. Inizia a giocare con il concetto di “maschera“, considerandola “un prodotto sociale storico” che rivela più verità di quanto potrebbe fare una ricerca diretta dell’autenticità. La fotografia diventa un mezzo per esplorare le identità socialmente costruite, le apparenze che scegliamo di indossare e il significato che queste trasmettono.

Compie altri tentativi: ora cerca di fissare l’insolito e l’inatteso; ora ricostruisce costumi e atteggiamenti del passato per conferire all’immagine un contenuto simbolico e allegorico.

A poco a poco viene travolto dall’ossessione: “Qualsiasi persona tu decida di fotografare, o qualsiasi cosa, devi continuare a fotografarla sempre, solo quella, a tutte le ore del giorno e della notte.” Anche quando il soggetto non è consapevole di essere ripreso; anche quando è il soggetto stesso a essere assente. “La fotografia ha un senso solo se esaurisce tutte le immagini possibili.”

Desidera una Bice che esista solo per lui, “una Bice la cui presenza presupponga l’assenza di lui e di tutti gli altri“. Questa fase del suo viaggio riflette una lotta interna tra il desiderio di catturare l’irripetibile e la consapevolezza della distanza insuperabile che la mediazione fotografica introduce tra l’osservatore e l’oggetto osservato. Un concetto che richiama, con tutte le differenze del caso, la legge della fisica quantistica secondo cui è impossibile osservare una particella senza interferire con essa, modificandola.

Antonino si trova alla fine a fotografare fotografie. Questo atto simboleggia sia la resa che l’apice della sua ricerca artistica; è sia la rinuncia all’idea di catturare la realtà attraverso la fotografia, sia l’adozione di un nuovo metodo che considera la realtà come già mediatizzata e interpretata attraverso lenti preesistenti.

Fotografando immagini di giornali spiegazzati sul pavimento, Antonino stabilisce un legame indiretto tra il suo obiettivo e quello dei fotoreporter lontani, i quali hanno catturato momenti di estremo contrasto sociale, come disordini, celebrazioni e tragedie. Questo lo porta a riflettere sulla propria posizione rispetto al mondo, interrogandosi sulla validità e sul significato di catturare la realtà attraverso la fotografia. “Vuoi dire che solo lo stato d’eccezione ha un senso? È il fotoreporter il vero antagonista del fotografo domenicale? I loro mondi si escludono? Oppure l’uno dà un senso all’altro?”

Stracciate le foto di Bice in mille frammenti, ne fa un involto con un foglio di giornale e lo riprende. “Forse la vera fotografia totale è un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni“.

Questi frammenti, mescolati a riconoscibili immagini di eventi mondani o catastrofici, gli suggeriscono che il vero significato della fotografia risieda nella capacità di racchiudere sia l’assurdità quotidiana sia gli estremi dell’esperienza umana.

Ecco il finale: “Voleva che nella sua foto si potessero riconoscere le immagini mezzo appallottolate e stracciate e nello stesso tempo si sentisse la loro irrealtà d’ombre di inchiostro casuali, e nello stesso tempo ancora la loro concretezza d’oggetti carichi di significato, la forza con cui s’aggrappavano all’attenzione che cercava di scacciarle. Fotografare fotografie era la sola via che gli restava, anzi la vera via che lui aveva oscuramente cercato fino allora.”

Questa conclusione esemplifica la comprensione di Antonino che fotografare non è tanto l’atto di catturare momenti quanto è un modo di interpretare e dare senso al mondo. La fotografia, in quanto mezzo, non può mai catturare completamente la realtà. Ogni tentativo di fare ciò è intrinsecamente limitato e soggettivo, destinato a trasformarsi in una rappresentazione di rappresentazioni.

La sua scelta non è quindi una sconfitta, ma un’illuminazione sul ruolo dell’artista come colui che non solo documenta la realtà, ma anche la interpreta, la rappresenta e, in tal modo, partecipa alla sua costruzione.

Il finale non è solo la conclusione del viaggio personale di Antonino, ma anche una profonda riflessione sulla natura dell’arte, sulla rappresentazione e sulla realtà. Mostra come la fotografia, e per estensione qualsiasi forma d’arte, sia un tentativo umano di dare senso e forma al mondo che ci circonda, pur riconoscendo i suoi limiti e la sua inevitabile distanza dalla realtà stessa.