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Magnum Photos: Dentro l’immagine, fuori dal centro

MAGNUM PHOTOS

Dentro l’immagine, fuori dal centro

 

 

 

Guardare una fotografia è un atto semplice. Ma comprendere cosa realmente accade quando la osserviamo, cosa si muove dentro di noi, cosa ci chiede quell’immagine — questo è tutt’altro che banale.

La fotografia non è più, se mai lo è stata, uno specchio del mondo. È piuttosto un passaggio: tra il visibile e l’invisibile, tra l’istante e la memoria, tra ciò che è successo e ciò che scegliamo di vedere. È uno spazio di negoziazione, di interpretazione, a volte di conflitto. E chi scatta, chi seleziona, chi guarda, partecipa, consapevolmente o meno, a questa costruzione condivisa del significato.

Nel tempo in cui viviamo, sovraccarico di immagini, dove ogni dispositivo è una finestra spalancata sul mondo, si rende necessaria una domanda che si credeva superata: cosa significa ancora “guardare”?
E più precisamente: chi siamo noi, quando guardiamo?
Testimoni? Spettatori? Complici? Consumatori?

Questo articolo nasce da una conferenza che non è solo una lezione sulla storia della fotografia, ma un viaggio critico e poetico attraverso il lavoro di Magnum Photos e, in particolare, dello sguardo di Paolo Pellegrin, uno dei fotografi contemporanei più potenti e consapevoli.

Entreremo nelle traiettorie visive che hanno definito il secondo Novecento e l’inizio del XXI secolo, non solo per documentare la realtà, ma per interrogare il nostro modo di abitarla, raccontarla e, forse, cambiarla.

Restando “dentro l’immagine”, ma scegliendo consapevolmente di posizionarci fuori dal centro.

 

La nascita di un’utopia visiva:

Magnum Photos

 

Nel 1947, in un’Europa ancora stordita dalle macerie della guerra, un piccolo gruppo di fotografi immagina un progetto radicale: una cooperativa di autori, fondata sul principio di libertà creativa e autodeterminazione narrativa. Non un’agenzia, non un’impresa editoriale, ma un’utopia visiva: Magnum Photos.

I fondatori – Robert CapaHenri Cartier-BressonDavid Seymour e George Rodger, insieme a figure cruciali come Maria Eisner e Rita Vandivert – non volevano solo cambiare il modo di fare fotografia. Volevano trasformare il modo in cui la fotografia stessa partecipa alla storia.

Per la prima volta, i fotografi sarebbero stati proprietari dei propri negativi. Avrebbero avuto voce nella scelta delle immagini pubblicate, nella scrittura delle didascalie, nella costruzione del racconto. In un’epoca in cui la fotografia era spesso uno strumento nelle mani dell’editoria o della propaganda, Magnum proponeva una rivoluzione: il fotografo come autore consapevole, non come operatore invisibile.

Due sedi – Parigi e New York – e poi Londra, Tokyo. Una struttura decentrata, internazionale, pensata per seguire i grandi eventi del mondo ma anche per proteggerne lo sguardo. La cooperativa non era solo un contenitore di immagini: era una comunità di pensiero, un luogo di confronto continuo tra estetica, etica e politica.

I membri si riunivano ogni anno per accogliere nuovi fotografi, attraverso un sistema rigoroso: prima candidati, poi associati, infine membri a vita. Una selezione che non misurava solo la qualità tecnica, ma la coerenza visiva, la capacità di stare nel mondo con uno sguardo non banale, non passivo.

Fin dalle origini, Magnum si è posta non solo come collettivo visivo, ma come dichiarazione politica: sul senso della testimonianza, sul potere della narrazione, su chi ha il diritto di raccontare cosa. Una dichiarazione che risuona ancora oggi, forse più urgente che mai.

 

Magnum nel tempo:

geografie, conflitti, umanesimo

 

La storia di Magnum è un viaggio attraverso le svolte del Novecento e del nuovo millennio, vista dalla soglia fragile tra partecipazione e osservazione. Non si tratta solo di documentare. È una forma di abitare il tempo, dando volto e corpo ai grandi processi storici — e alle vite minute che ne vengono attraversate.

 

Anni ’40–’50:

La nascita dell’umanesimo fotografico

 

Negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, i fotografi Magnum raccontano la ricostruzione dell’Europa, l’infanzia ferita, i profughi dimenticati, la nascita dello Stato di Israele. Le immagini non sono mai solo testimonianze, ma atti di compassione visiva, spesso silenziosi, essenziali, profondamente umani.

In questi anni, prende forma una visione etica: la fotografia come responsabilità verso l’altro, come cura del reale. Capa in Indocina, Cartier-Bresson in India per il funerale di Gandhi, Chim Seymour tra i bambini sopravvissuti alla guerra: ognuno costruisce un ponte tra l’attimo e la storia.

 

Anni ’50–’70:

Espansione globale e società in fermento

 

È un periodo di ampliamento geografico e tematico. Le lenti di Magnum si volgono verso:

  • la decolonizzazione africana, con immagini che svelano la fine violenta dei domini europei,
  • la rivoluzione cubana, dove Che Guevara diventa icona attraverso l’obiettivo di René Burri,
  • il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, raccontato con intensità da Bruce Davidson,
  • il Vietnam, documentato da Philip Jones Griffiths con una forza che trasforma la percezione pubblica della guerra.

In parallelo, i fotografi iniziano a osservare i mutamenti culturali: la moda, il cinema, la società dei consumi. L’occhio si fa più critico, più laterale, meno didascalico. La fotografia si apre anche alla quotidianità che cambia, agli interstizi della storia ufficiale.

 

Anni ’80–’90:

Fratture, transizioni e nuove estetiche

 

Con la caduta del Muro di Berlino, le guerre nei Balcani, il genocidio in Ruanda, Magnum affronta una realtà più frammentata e dolorosa. I soggetti diventano più ambigui, le linee morali meno nette.

Si intensifica anche la riflessione estetica: Martin Parr, ad esempio, porta uno sguardo ironico e disturbante sulla società dei consumi britannica. Altri, come Sebastião Salgado, trasformano la fotografia sociale in epica visiva, con uno stile che fa discutere per la sua “bellezza del dolore”.

 

Anni 2000–oggi:

Crisi globali, nuove tecnologie, identità fluide

 

Nel nuovo millennio, Magnum affronta un mondo in cui i confini si moltiplicano — fisici, culturali, climatici. Le aree di intervento includono:

  • le guerre post-11 settembre,
  • la crisi climatica e le migrazioni di massa,
  • la pandemia, raccontata con immagini spettrali di città vuote,
  • i movimenti LGBTQ+, le battaglie per l’identità e la giustizia sociale.

In parallelo, emergono nuove modalità narrative: archivi, performance, linguaggi misti, fotografie che dialogano con video, installazioni, testi. La fotografia si decentra, si ibrida, diventa campo di sperimentazione etica ed estetica.

 

Un archivio vivente della coscienza

 

La forza di Magnum sta nel suo essere molte cose insieme: testimone, archivio, laboratorio, memoria attiva. È un organismo che respira con la storia, ne assume i traumi, ma anche le domande. E nel farlo, ci ricorda che guardare non è mai un atto neutro, ma un esercizio continuo di consapevolezza.

 

Etica e estetica:

chi ha il diritto di raccontare chi?

 

In un’epoca dove l’immagine è ubiqua, replicabile e vulnerabile, la fotografia documentaria si ritrova a fronteggiare una domanda che è insieme estetica, politica e morale: chi ha il diritto di raccontare chi? E cosa implica questa responsabilità, oggi, in un mondo sovraesposto?

 

La crisi della fiducia visiva

 

Negli ultimi anni, anche Magnum Photos, simbolo storico di integrità documentaria, è stata costretta a confrontarsi con i propri limiti. Nel 2020, una revisione dell’archivio ha rivelato la presenza di immagini problematiche, tra cui foto di minori in contesti ambigui e metadati discutibili come “teenage girl – 13 to 18” associati alla prostituzione. La risposta della cooperativa è stata una revisione interna radicale, ma il danno etico e reputazionale era ormai evidente.

A questa crisi si è aggiunta l’espulsione di David Alan Harvey, accusato di molestie sessuali. Due episodi distinti ma sintomatici: la difficoltà di coniugare memoria e sensibilità contemporanea, libertà espressiva e giustizia relazionale.

 

Tre modelli di visione

 

La fotografia documentaria non è mai stata neutrale. Ma oggi più che mai, si ridefinisce lungo tre assi interpretativi:

  1. Realista – l’immagine come verità osservata, oggettiva, trasparente (Cartier-Bresson).
  2. Interpretativo – l’immagine come visione personale, emotiva, soggettiva (Salgado, Pellegrin).
  3. Critico-relazionale – l’immagine come atto condiviso, relazione tra fotografo e soggetto (Azoulay, De Middel).

In questa transizione, si sposta anche il significato del “testimoniare”: da documentare il mondo a interrogarsi sul modo in cui lo si racconta. Una fotografia non mostra solo ciò che accade. Mostra da dove si guarda — e chi è lasciato fuori campo.

 

Empatia, estetica e neuroscienze:

il cervello davanti all’immagine

 

 

Le neuroscienze cognitive offrono uno strumento prezioso per comprendere il comportamento dello spettatore. Quando osserviamo immagini percepite come “autentiche” — ad esempio, una scena non posata, illuminata naturalmente, con volti riconoscibili — si attivano aree cerebrali legate all’empatia cognitiva, come il precuneo e la corteccia temporoparietale. È un tipo di empatia che ci fa entrare nella mente dell’altro, ci spinge a chiederci: cosa sta provando?

Al contrario, immagini fortemente stilizzate, curate o simboliche attivano prevalentemente il sistema limbico (insula, corteccia orbitofrontale), che gestisce l’emozione estetica e il piacere visivo. Qui, l’empatia si sposta dall’altro al sé: ci emozioniamo per la bellezza dell’immagine, per l’intenzione autoriale, ma meno per chi vi è ritratto.

  • Il reportage crudo stimola compassione altruistica.
  • La fotografia autoriale stimola emozione riflessiva.

Questo effetto ha implicazioni etiche profonde: più un’immagine è “bella”, meno ci chiediamo se sia giustaEstetica ed etica competono per le stesse risorse cognitive. E il rischio è quello della compassione estetizzata: ci emozioniamo, ma non agiamo.

 

Chi controlla la memoria, controlla il significato

 

 

Oltre lo sguardo, il vero nodo è la memoria. Magnum, con il suo vastissimo archivio, non è solo un collettore di immagini: è un architetto della memoria collettiva. Ma ogni archivio è una costruzione selettiva. E ogni selezione è un atto di potere.

Chi decide quali immagini restano visibili e quali spariscono? Chi determina le didascalie, i tag, i contesti d’uso? Queste domande non sono solo tecniche: sono politiche. Perché definire cosa viene ricordato — e cosa viene dimenticato — significa influenzare come sarà interpretato il passato.

E nell’era digitale, dove le immagini viaggiano senza cornice, decontestualizzate e manipolabili, la posta in gioco si alza: come proteggere i soggetti fotografati da una seconda esposizione, quella della visibilità permanente?

 

Verso un nuovo contratto visivo

 

La fotografia non può più essere solo uno strumento di rappresentazione. Deve diventare uno spazio di co-costruzione del senso, dove chi guarda e chi è guardato partecipano, consapevolmente, alla narrazione. Per questo serve oggi una nuova grammatica dell’etica visiva. Una che tenga conto della psicologia dello sguardo, del funzionamento cerebrale, dei bias percettivi e del potere delle cornici narrative.
Una fotografia che non consola, ma interroga. Che non ci mostra solo “com’è il mondo”, ma ci chiede: che parte abbiamo, noi, in tutto questo?

Paolo Pellegrin articolo

 

 

Percorso d’arte a Garbatella

identity Mostra d'arte

TOUR SOLD OUT. CHIUSE LE ISCRIZIONI

 

Tour di 2 ore – Garbatella + studi d’arte
Date disponibili:

Rome Art Week 2025

Dal 20 al 25 ottobre sarà possibile partecipare gratuitamente a un tour guidato di due ore alla scoperta della Garbatella storica, con visita a tre studi-galleria attivi nel quartiere:

  • Open Studio Gallery di Patrizia Genovesi

  • Spiritree Bottega d’Arte

  • Studio d’Arte di Sandra Gianesini

 

Garbatella, città giardino del Novecento e cuore pulsante di Roma, è oggi un territorio dove l’arte si intreccia al tessuto urbano.

Qui nasce DAI – Distretto di Arte Immagine, un progetto che valorizza la vitalità culturale del quartiere attraverso percorsi visivi, studi aperti e incontri con gli artisti.

Un invito a scoprire Garbatella come spazio di creatività diffusa, tra memoria e linguaggi contemporanei.

 

In occasione di Rome Art Week, L’Open Studio Gallery di Patrizia Genovesi apre le porte a una mostra site-specific dedicata al tema dell’identità visiva nell’era dell’intelligenza artificiale.

 

L’Open Studio Gallery diventa un luogo d’incontro diretto con l’artista: uno spazio intimo dove osservare il processo creativo da vicino e riflettere su arte, percezione e tecnologia.

Il vernissage, su prenotazione, sarà un momento di condivisione con il pubblico in uno dei contesti urbani più suggestivi di Roma.

Prenota la visita alla mostra “IDENTITY”

Mostra immersiva a cura di Patrizia Genovesi
Dal 20 al 30 ottobre – ore 16:00–20:00
Vernissage: 21 ottobre – ore 18:30–20:30
Via Villa Belardi, 18 – Roma – Partecipazione gratuita, prenotazione obbligatoria.

VERNISSAGE SOLD OUT. CHIUSE LE ISCRIZIONI

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Approfondimento:

la mostra IDENTITY

Una mostra immersiva a cura di Patrizia Genovesi
Open Studio Gallery – Rome Art Week 2025

Vernissage: 21 ottobre 2025 – ore 18.30–20.30
Mostra: 20–30 ottobre 2025 – ore 16.00–20.00

Indirizzo: Via Villa Belardi, 18 – Roma
Info: openstudiogallery.pg@proton.me

Ingresso gratuito – posti limitati
Prenota ora per riservare il tuo ingresso, i posti sono limitati

Scarica il comunicato stampa

Il Progetto

IDENTITY è un progetto espositivo che affronta il tema dell’identità come processo visivo, spaziale e cognitivo.
La mostra si articola in tre sezioni immersive — fotografia, video, suono, interazione — che esplorano il modo in cui la nostra presenza nel mondo si definisce attraverso l’architettura, la percezione e l’intelligenza artificiale.

In uno scenario dominato da ambienti digitali, città intelligenti e algoritmi visivi, IDENTITY non propone risposte, ma apre domande.
Come si trasforma la coscienza quando non ha più un luogo stabile da abitare?
Chi siamo, quando il nostro volto è interpretato da un sistema artificiale?

Le tre sezioni non si sommano, ma compongono un’unica esperienza: un percorso immersivo che invita a guardare l’identità non come una definizione, ma come una forma in movimento.

Architetture: la città giardino

Un’indagine fotografica e audiovisiva sul quartiere giardino romano d’inizio Novecento.
Un modello urbano costruito per formare non solo lo spazio, ma anche il senso di appartenenza.
Le immagini e i suoni tracciano le linee sottili che legano l’identità individuale al disegno della città.

Nuove forme del vivere

I quartieri sperimentali di Copenaghen diventano il luogo di osservazione per una nuova relazione tra corpo e spazio.
Architetture nate per essere abitate in modo diverso, raccontate con uno sguardo che mescola visione, documentazione e interpretazione.
L’identità emerge qui come risultato di un progetto condiviso: urbano, ambientale, estetico.

L’identità nell’epoca dell’algoritmo

La sezione più speculativa della mostra.
Fotografie, video, linguaggi generativi, sistemi interattivi: tutto concorre a mettere in scena un interrogativo preciso.
Che cosa succede all’identità, quando è osservata, definita o prodotta da una macchina?
La sezione include opere di Patrizia Genovesi e dei fotografi selezionati dell’AFIP International – Associazione Fotografi Professionisti.

Una mostra immersiva

Ogni sezione della mostra è progettata come ambiente:
non ci sono cornici da osservare a distanza, ma spazi da attraversare, ascoltare, interrogare.
Fotografia, video, voce narrante, QR code, interfacce NFC creano un sistema di visione e ascolto.
Lo spettatore non guarda: partecipa.

IDENTITY partecipa al gruppo DAI, la rete delle Gallerie d’arte del distretto artistico di Roma Municipio VIII, nell’ambito di Rome Art Week 2025, all’interno del progetto collettivo “Immagina futuro e memoria”, con una riflessione visiva sul rapporto tra spazio urbano, tecnologie emergenti e costruzione della coscienza individuale.

Copenhagen
La città giardino
L’identità nell’epoca dell’algoritmo
DAI Distretto Arte e Immagine

IDENTITY

identity Mostra d'arte

Una mostra immersiva a cura di Patrizia Genovesi
Open Studio Gallery – Rome Art Week 2025

Mostra prorogata fino al 30 novembre 2025 – ore 16.00–20.00

Indirizzo: Via Villa Belardi, 18 – Roma
Info: openstudiogallery.pg@proton.me

Ingresso gratuito – prenotazione obbligatoria
Prenota ora la visita guidata

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Il Progetto

IDENTITY è un progetto espositivo che affronta il tema dell’identità come processo visivo, spaziale e cognitivo.
La mostra si articola in tre sezioni immersive — fotografia, video, suono, interazione — che esplorano il modo in cui la nostra presenza nel mondo si definisce attraverso l’architettura, la percezione e l’intelligenza artificiale.

In uno scenario dominato da ambienti digitali, città intelligenti e algoritmi visivi, IDENTITY non propone risposte, ma apre domande.
Come si trasforma la coscienza quando non ha più un luogo stabile da abitare?
Chi siamo, quando il nostro volto è interpretato da un sistema artificiale?

Le tre sezioni non si sommano, ma compongono un’unica esperienza: un percorso immersivo che invita a guardare l’identità non come una definizione, ma come una forma in movimento.

Architetture: la città giardino

Un’indagine fotografica e audiovisiva sul quartiere giardino romano d’inizio Novecento.
Un modello urbano costruito per formare non solo lo spazio, ma anche il senso di appartenenza.
Le immagini e i suoni tracciano le linee sottili che legano l’identità individuale al disegno della città.

Nuove forme del vivere

I quartieri sperimentali di Copenaghen diventano il luogo di osservazione per una nuova relazione tra corpo e spazio.
Architetture nate per essere abitate in modo diverso, raccontate con uno sguardo che mescola visione, documentazione e interpretazione.
L’identità emerge qui come risultato di un progetto condiviso: urbano, ambientale, estetico.

L’identità nell’epoca dell’algoritmo

La sezione più speculativa della mostra.
Fotografie, video, linguaggi generativi, sistemi interattivi: tutto concorre a mettere in scena un interrogativo preciso.
Che cosa succede all’identità, quando è osservata, definita o prodotta da una macchina?
La sezione include opere di Patrizia Genovesi e dei fotografi selezionati dell’AFIP International – Associazione Fotografi Professionisti.

Rome Art Week 2025

Una mostra immersiva

Ogni sezione della mostra è progettata come ambiente:
non ci sono cornici da osservare a distanza, ma spazi da attraversare, ascoltare, interrogare.
Fotografia, video, voce narrante, QR code, interfacce NFC creano un sistema di visione e ascolto.
Lo spettatore non guarda: partecipa.

PRENOTAZIONI

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DATE E VISITE

La mostra è visitabile fino al 30 novembre 2025, dalle 16:00 alle 20:00, solo su prenotazione

La partecipazione è gratuita ma la prenotazione è obbligatoria.

Copenhagen
La città giardino
L’identità nell’epoca dell’algoritmo

Maurizio Rebuzzini

Maurizio Rebuzzini. La fotografia come coscienza del nostro tempo

 

Maurizio Rebuzzini (Milano, 14 luglio 1951 – 2025) è stato uno dei più lucidi interpreti italiani della fotografia come linguaggio culturale. Critico, storico, giornalista, docente e curatore, ha lasciato un segno profondo non tanto come fotografo in senso stretto, quanto come uomo capace di dare alla fotografia dignità critica e ruolo civile. La sua vita e il suo pensiero si intrecciano in una trama unica: la convinzione che la fotografia non sia mai un semplice strumento tecnico, ma coscienza, memoria e responsabilità.


Vita e carriera

La passione di Rebuzzini per la fotografia nasce nei primi anni Settanta, quando resta affascinato dalla mitica Nikon F. Sarà quella la sua “folgorazione”: non solo un incontro con un oggetto tecnico, ma la scoperta di un linguaggio capace di raccontare il mondo. Dal 1972 inizia a collaborare con testate specializzate, muovendo i primi passi in un ambiente allora dominato dall’attenzione alla macchina e alla tecnica. Lui, invece, sceglie di guardare oltre: si interessa alle immagini, al loro ruolo nella società, al loro valore culturale.

Nel 1994 fonda la rivista FOTOgraphia, che diventa rapidamente un punto di riferimento per chiunque voglia andare oltre l’uso superficiale dell’immagine. Sulle sue pagine promuove un approccio colto e consapevole, lontano dalle mode e dalle semplificazioni. Con la successiva versione digitale, FOTOgraphiaONLINE, abbraccia la sfida della Rete senza perdere il suo tono rigoroso e appassionato.

Per anni insegna Storia della fotografia all’Università Cattolica di Brescia. Le sue lezioni non sono mai mere cronologie di nomi e date: diventano percorsi vivi, in cui la fotografia dialoga con filosofia, letteratura, scienza. “Missione della fotografia è spiegare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso”, ripete citando Edward Steichen. È questa la cifra della sua didattica: stimolare riflessione, consapevolezza, sguardo critico. Invita gli studenti a non rifugiarsi nei manuali enciclopedici, ma a vivere la fotografia come parte della vita: “guardate un tramonto, parlate con un bambino, leggete poesie”, scrive in un appunto per il corso.

Parallelamente ricopre il ruolo di curatore della sezione storica degli apparecchi fotografici al Museo Nazionale Alinari della Fotografia (MNAF) di Firenze, contribuendo alla valorizzazione di un patrimonio tecnico e culturale unico. Collabora con istituzioni, associazioni e festival, ed è tra i fondatori di Obiettivo Camera, insieme a figure come Gian Paolo Barbieri e Giovanni Gastel.

Il suo lavoro è stato riconosciuto da premi prestigiosi: dal Premio Giornalistico Assofoto (1984) al Premio AIF alla carriera (2017), passando per l’Horus Sicof (1997) e il Premio Orvieto Fotografia (2004).

Tra i suoi libri ricordiamo Alla Photokina e ritorno (2008), racconto di un’esperienza emblematica del mondo fotografico internazionale; All the Colors of Yellowstone (2006, con Mario Vidor); e Gian Paolo Barbieri. Dark Memories (2013, con Nicoletta Velissiotis). Più che come fotografo, Rebuzzini rimane come scrittore, critico e interprete.


Un pensiero rigoroso e appassionato

Nei suoi articoli e nelle lezioni universitarie emerge un’idea forte: la fotografia non è mai neutra. Ogni immagine porta con sé un valore culturale ed etico. Per questo Rebuzzini mette in guardia dall’abuso di parole come “icona”, invitando a non svuotare i termini del loro peso semantico. Definire una fotografia “iconica” senza contesto è un tradimento del suo valore.

Riflettendo su Henri Cartier-Bresson, spiega come il momento decisivo non sia un feticcio tecnico, ma un istante che racchiude in sé un’intera narrazione. La forza della fotografia sta nella capacità di far emergere senso e pensiero a partire da un frammento visivo.

Nei suoi corsi insiste sul legame tra fotografia e altre discipline: matematica, filosofia, arte, letteratura. Non esistono compartimenti stagni. La fotografia è figlia tanto della scienza quanto dell’arte, e solo nell’intreccio dei saperi si può comprenderne la portata.

Commentando autori come Tano D’Amico, esalta i fotografi che sanno trasformare lo scatto in coscienza critica. Scrive che la fotografia non deve limitarsi all’estetica, ma deve interrogare la vita, la società, il potere. Le immagini belle sono quelle che contengono misericordia, quelle che non compiacciono ma inquietano, quelle che non si lasciano dimenticare.

Dalla sua scrittura traspare un carattere insieme rigoroso e appassionato. Rigoroso, perché rifiuta scorciatoie linguistiche, semplificazioni ed etichette; appassionato, perché vive la fotografia come esperienza vitale, intrecciandola con filosofia, poesia, etica. Era un uomo ironico e disincantato, ma anche profondamente generoso nel condividere il proprio sapere. Non voleva solo insegnare “la storia della fotografia”: voleva trasmettere la passione per un linguaggio che fosse insieme arte, scienza e coscienza civile.


L’eredità culturale

Maurizio Rebuzzini lascia un patrimonio fatto di riviste, articoli, lezioni e incontri che hanno contribuito a formare generazioni di studenti, fotografi e appassionati. La sua voce rimane nelle pagine di FOTOgraphia, nei ricordi dei colleghi e degli allievi, nelle mostre e nei saggi curati, ma soprattutto nell’idea che la fotografia sia un linguaggio capace di raccontare la vita e di interrogarla.

Più che un critico o un docente, è stato un custode della coscienza fotografica: un intellettuale che ha difeso la fotografia dall’appiattimento, ricordandoci che ogni immagine è più di un’immagine. È storia, memoria, verità. È un modo di guardare il mondo e di prenderne posizione.

Maurizio Rebuzzini ha vissuto la fotografia come una responsabilità culturale. Non si è limitato a raccontarla, ma l’ha interpretata, difesa, condivisa. Ha insegnato che l’immagine può essere un ponte fra vita e pensiero, fra individuo e società, fra storia e coscienza. Oggi, rileggendo i suoi testi, colpisce la sua capacità di tenere insieme rigore e passione, tecnica e umanità, etica e bellezza. La sua figura rimane come quella di un intellettuale che ha fatto della fotografia un luogo di verità, e della critica un atto di amore verso la vita.


Bibliografia essenziale

  • Rebuzzini, Maurizio, Alla Photokina e ritorno, Graphia, 2008.
  • Rebuzzini, Maurizio – Vidor, Mario, All the Colors of Yellowstone, 2006.
  • Rebuzzini, Maurizio – Velissiotis, Nicoletta, Gian Paolo Barbieri. Dark Memories, Skira, 2013.
  • Articoli e saggi in FOTOgraphia (dal 1994) e FOTOgraphiaONLINE.
  • Rebuzzini, Maurizio, lezioni universitarie di Storia della fotografia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia (2000–2010).

 

Articoli

Patrizia Genovesi Prossimo Evento Rome Art Week

Paolo Pellegrin Approfondimento

Maria Vittoria Backhaus Approfondimento

Where Are We When We Are Online?

Where Are We When We Are Online?

Locandina mostra d’arte contemporanea con figura in primo piano e persona seduta in una stanza minimalista illuminata dall’alto. Mostra: "Dove siamo quando siamo online"?

Open studio  di Patrizia Genovesi

In occasione della Rome Art Week 2025, l’Open Studio Gallery di Patrizia Genovesi si apre al pubblico come spazio di dialogo, ricerca e riflessione critica, offrendo un accesso diretto e partecipato all’universo interdisciplinare dell’artista. L’evento rappresenta un momento privilegiato per entrare in contatto con il pensiero e la produzione di una figura centrale nel panorama contemporaneo, la cui opera fonde con rigore e libertà espressiva fotografia, cinema, scienza, filosofia e nuove tecnologie.

Il cuore dell’incontro sarà costituito dal progetto Dove siamo quando siamo online?, saggio visivo e concettuale sull’identità nell’era digitale. In questo lavoro Patrizia Genovesi esplora la trasformazione dell’esperienza umana all’interno di ambienti privi di collocazione fisica, ridefinendo le condizioni stesse dell’abitare la coscienza. Il digitale – non come semplice tecnologia, ma come struttura epistemica – viene indagato nei suoi effetti sulla percezione, sulla visione interiore, sulla rappresentazione di sé e sull’orientamento mentale.

Questo corpus di riflessioni, teoriche e visive, rappresenta il nucleo fondativo del  progetto espositivo di Genovesi, IDentity, che sarà inaugurato nella seconda metà di ottobre. Il pubblico della Rome Art Week potrà così vivere in anteprima l’elaborazione concettuale di una mostra che si propone di interrogare l’essenza dell’identità umana a fronte della crescente simbiosi tra uomo e macchina, tra biologico e algoritmico.

L’evento sarà articolato in:

  • una presentazione interattiva dei temi di Dove siamo quando siamo online?

  • momenti di incontro diretto e conversazione con l’artista, in un clima di scambio libero e profondo

  • esplorazione dello spazio creativo dell’Open Studio, dove l’arte si genera come processo, non solo come risultato.

L’Open Studio non è una mostra nel senso tradizionale, ma un luogo vivo di visione e riflessione, dove il pubblico è chiamato a partecipare al processo creativo come interlocutore, non solo come spettatore. È un invito a pensare insieme il futuro dell’identità, della visione e della presenza, in un’epoca in cui essere connessi non sempre significa essere situati.

Con il nuovo progetto IDENTITY, Patrizia Genovesi prosegue il suo percorso tra arte e pensiero critico, affrontando le sfide identitarie del nostro tempo. Come già nei suoi lavori precedenti, come COSMOS, Roma vista dagli Alieni, Ex Machina, anche qui la sua visione si traduce in immagini fortemente simboliche, capaci di aprire spazi di interrogazione sul presente e sul futuro.

IDENTITY  partecipa alla Rome Art Week 2025  APPROFONDISCI l’argomento leggendo l’articolo di Patrizia Genovesi

Dove siamo quanto siamo online? 

Open Studio Patrizia Genovesi presenta “Dove siamo quando siamo online?”, riflessione visiva e teorica sull’identità digitale. Incontri con l’artista e anteprima del progetto IDentity, tra coscienza, algoritmi e nuovi spazi della visione.

 

 

 

MARTEDI’ 21/10/2025

dalle 18.30 alle 20.30

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Guardare con Paolo Pellegrin

Guardare con

Paolo Pellegrin

La fotografia come spazio interiore

Paolo Pellegrin ci mette davanti a ciò che il mondo è diventato, senza urlare, senza commentare. Ci mette lì, dentro. Non tanto per farci vedere, ma per farci sentire.

La prima cosa che colpisce del suo lavoro – e chi ha visto le sue mostre lo sa – è il silenzio. Un silenzio carico. Le sue immagini, spesso scattate in luoghi attraversati dalla violenza, non cercano lo scatto “forte” o la scena spettacolare. Preferiscono un altro registro: quello dell’attesa, della sospensione, a volte persino del pudore. Non è la guerra che ci esplode davanti. È l’umanità ferita che ci guarda negli occhi.

È in questa dimensione che Pellegrin si distingue. Non è solo un fotografo di guerra o un reporter ambientale. È un autore che ha scelto di attraversare il nostro tempo con uno sguardo che non semplifica mai.

I suoi scatti non danno soluzioni, non rassicurano. Restano lì, come domande che non cercano risposta.

Molti critici hanno parlato del suo uso del bianco e nero. Ma più che una scelta estetica, sembra un linguaggio interiore. Come se la realtà, per essere compresa, avesse bisogno di essere sottratta al rumore, ai colori del sensazionalismo. Il bianco e nero diventa un filtro emotivo, non un effetto visivo. Qualcosa che ci costringe a rallentare, a stare davanti all’immagine più a lungo, senza distrazioni.

Ma c’è un’altra cosa che rende il lavoro di Pellegrin diverso: la sua capacità di passare da un confine all’altro – geografico, tematico, emotivo – mantenendo intatta una coerenza profonda. Pochi riescono a raccontare con la stessa forza un campo profughi, un paesaggio artico, una stanza d’ospedale o una casa distrutta da un raid aereo. In ognuno di questi spazi, lui cerca la stessa cosa: un gesto umano, una traccia, un segno che ci interroghi.

Chi lo ha ascoltato parlare sa che Pellegrin pesa ogni parola. Non è uno di quei fotografi che si spiegano troppo. Preferisce lasciare che siano le immagini a dire quello che devono dire. E forse è anche per questo che i suoi lavori resistono nel tempo. Perché non sono legati all’attualità stretta, ma a qualcosa di più universale: la paura, la perdita, la tenacia, la bellezza fragile delle cose.

Guardare una foto di Pellegrin non è un’esperienza comoda. Ma è necessaria. È come entrare in uno spazio dove la fotografia smette di essere solo documento e diventa coscienza. Non ci dice “guarda com’è il mondo”. Ci chiede: “tu dove sei, in tutto questo?”.

E non serve una risposta.

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Maurizio Rebuzzini